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Cinque cose da sapere su Graham e Damon Hill, una famiglia nella storia della F1

Graham Hill è l’unico ad aver vinto il Mondiale di F1, la 24 ore di Le Mans e la 500 miglia di Indianapolis. E’ morto in un incidente aereo che ha segnato la vita di Damon, campione del mondo nel 1996. Sono la prima coppia di padre e figlio con un titolo iridato in F1.
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La vita e la morte. Il successo e il peso di un nome ingombrante. Hill, la collina di una Spoon River che dietro un pezzo di leggenda adombra stormi di pensieri neri e morte stagioni. Papà Graham è l'unico pilota ad aver vinto Mondiale di F1, 500 miglia di Indianapolis, 24 ore di Le Mans. Il figlio, Damon, ha sentito il ricordo del suo fatale incidente aereo scavare un solco di dubbi e dolore, esacerbato dal cadavere di Senna nell'abitacolo della Williams, che era anche la sua, al Tamburello. Prima di lasciare, ha fatto in tempo a vincere un titolo anche lui. Gli Hill resteranno per sempre la prima coppia padre-figlio entrambi campioni del mondo.

Graham Hill: "Sono un artista, la pista è la mia tela"

“Sono un artista” diceva Graham Hill, “la pista è la mia tela, la macchina il mio pennello”. Ha ereditato, racconta, la determinazione dalla madre e il sense of humour dal padre: gli servono entrambi per sopravvivere a Londra negli anni della guerra. Suona la batteria in una band di boy scout e inizia un apprendistato come meccanico. Ha subito un incidente in moto, sbatte contro un'auto ferma e rimane con la gamba sinistra più corta della destra. Nel 1952 entra nel London Rowing Club, un anno dopo in Marina e come segno di protesta si fa crescere i baffi, simbolo della sua immagine e del suo fascino. Incontra Colin Chapman, il genio dietro alle Lotus a eggetto suolo, che gli offre prima un impiego part time poi un posto da pilota per il 1958. Dopo due anni senza grandi progressi passa alla BRM, che non sembra proprio navigare in buone acque, ma rivitalizza la squadra e nel 1962 trionfa in Olanda, Germania, Italia e Sudafrica: quattro sigilli che valgono il primo titolo mondiale. È famosissimo, amatissimo anche dalle donne che ricambia generosamente per la disperazione della moglie Bette, la madre di Damon. “In famiglia” scriverà il figlio nella sua autobiografia, “ruotava tutto intorno a lui”. È in questo periodo che compra un aerer per quella che scherzosamente viene ribattezzata “Hillarious Airways”. Nel 1968 rientra alla Lotus. Solo il suo carisma tiene in piedi il team in Spagna dopo la morte di Chapman: è il preludio al secondo titolo. Nel 1969 vince a Montecarlo per la quinta volta, un record, ma a fine anno ha un altro grave incidente a Watkins Glen. Va in testa coda, rientra con le cinture non allacciate ma una gomma esplode, la Lotus finisce contro le barriere e si frattura le gambe. “Almeno ci sono belle infermiere che mi massaggiano” scrive nell'autobiografia. “Per fortuna, poi, che è successo alla fine della stagione così non mi perdo troppe gare”. Ma non sarà più veloce come prima.

Un incidente misterioso

Nel 1973 Graham Hill vince a Le Mans e mette su la sua scuderia di F1, la Embassy Hill Racing, con risultati scarsissimi. Il 29 novembre del 1975 sta tornando sul suo aereo dal circuito di Paul Ricard, in Francia. Il quindicenne Damon ascolta la notizia in televisione. Un Piper Aztec è precipitato sul campo da golf di Arkley. Colpa della nebbia? Di qualcuno che gli ha ordinato di avviare la manovra di atterraggio per l'aeroporto militare di Elstree troppo presto? Mistero. Aveva però dimenticato di rinnovare la registrazione dell'aereo e l'assicurazione per poter pilotare di notte e in condizioni di scarsa abilità. Non era assicurato, di fatto. La casa degli Hill, una villa con piscina e 30 ettari di terra, verrà messa all'asta per ripagare i debiti e la famiglia deve trasferirsi a St.Albans in un appartamento finto georgiano.

Damon Hill: "Non sapevo chi ero"

Dopo l'incidente, Damon inizia a correre in biciclett: è proprio papà Graham che gli ha regalato la prima, a 12 anni. Diventa campione a Brands Hatch nel 1984 ma l'anno successivo con l'aiuto di George Harrison, amico del padre che investe nella sua carriera, passa alle quattro ruote. “C'era un elemento di volontà di continuare questa missione” ha detto Hill junior. “Era come una domanda ancora senza risposta nella mia vita e l'intero processo si è attivato non appena mi sono messo al volante”. È stato difficile, scrive nell'introduzione alla sua autobiografia, “separare il ‘puro me', il forgiare una mia autentica carriera, dal ragazzo ferito determinato a rivivere la vita del padre per esorcizzare quella perdita scioccante. Durante la mia carriera sono sempre stato confuso: non sapevo se ero davvero un pilota o qualcuno cui era stata affidata una missione da completare prima di poter diventare il mio vero io”.

From hero to zero: il Mondiale, la paura, l'addio

In pista la determinazione, lo spirito competitivo lo rendono “un duro bastardo”, parola di Frank Williams, che lo fa entrare in scuderia come terzo pilota. Debutta sì con la Brabham nel 1992, ma si qualifica due volte in otto gare. Per la Williams, percorre quasi 30 mila chilometri in due anni e aiuta a sviluppare la creatura più bella del team, secondo Claire Williams, e contribuisce al titolo mondiale di Mansell. A 33 anni è lui che ne prende il posto quando il Leone decide di darsi alle IndyCar. Prende il numero 0 sulla vettura, la FW15C Renault disegnata da Newey con le sospensioni attive, e chiude terzo nel Mondiale, vinto dal compagno di squadra Prost che a fine stagione si ritira. Dopo la morte di Senna, prende sulle spalle la responsabilità della scuderia nel 1994 e lotta per il titolo fino all'ultima gara con Michael Schumacher. L'incidente di Adelaide accende le polemiche: Hill poteva evitarlo? Schumi, che ha un punto di vantaggio e una sospensione danneggiata, l'ha fatto apposta a mettersi al centro della carreggiata, lentamente, facendosi speronare? Schumi, che lo batte nella corsa al titolo anche l'anno dopo, lo chiama “un pilota di seconda fascia”. Hill piace ai media, per i discorsi articolati e l'umorismo pungente (suona allora la chitarra in una band punk rock chiamata Sex Hitler and the Hormones). “Molti pensano che io sia qui perché ho un bel sorriso e un cognome famoso” dice. “E la Williams è naturalmente più incline a dare fiducia a un pilota che ha già vinto, non a qualcuno che dice di poterlo fare. Il fatto che sono alla Williams è una misura della mia determinazione ad avere successo”.

Nel 1996 Schumi passa a una Ferrari in via di costruzione. Il Mondiale è un duello interno alla Williams fra i due figli d'arte Hill e Villeneuve. Damon vince otto gare e festeggia, con 19 punti di vantaggio sul compagno di squadra, il suo trionfo. La Williams però lo mette alla porta e lo rimpiazza con Frentzen. La moglie Georgie parla per lui. “Damon ha dimostrato di avere più integrità e dignità nel mignolo di quanta molti ne hanno in tutto il corpo”. Gli anni difficili alla Arrows e poi alla Jordan accelerano il ritiro, a Suzuka, nell'ultima gara del 1999. “Volevo andarmene. Sentivo che mi sarebbe successo quel che era accaduto a mio padre, che c'era un incidente ad aspettarmi dietro l'angolo. Pensavo che sarei morto di lì a poco. Volevo un'altra identità, o forse volevo indietro la mia, quella vera”. Non andrà nemmeno a vedere una corsa per sei anni.

La luce dopo la depressione

La morte praticamente lo circonda da sempre. Nella foto scattata al suo battesimo, il piccolo Damon è in una piccola macchina con il papà, Bruce McLaren, Stirling Moss, Tony Brooks, Jo Bonnier, il suo padrino, e Wolfgang “Taffy” von Trips. McLaren muore testando la sua monoposto a Goodwood nel 1979, Bonnier nella 24 ore di Le Mans vinta da Graham Hill nel 1972, von Trips a Monza due mesi dopo quella foto in un tragico incidente che uccide 14 spettatori. Quel senso di vuoto, Damon Hill continua a provarlo anche dopo aver appeso il casco al chiodo, nonostante la passione per la musica, la laurea in inglese, la fondazione per bambini con disturbi dell'apprendimento (ha un figlio affetto dalla sindrome di down, la presidenza del British Racing Driver’s Club, il ruolo di commentatore per Sky. Il demone si chiama depressione. Entra in terapia e ne esce. “Mi portavo dietro il dolore per la morte di mio padre” scrive nella sua autobiografia. “E' importante capire i nostri sentimenti che non siamo incoraggiati a mostrare, non in pubblico. Ti serve qualcosa o qualcuno che ti aiuti a non farlo, che sia in una chiesa, a casa o in un altro posto”. Il suo momento liberatorio arriva alla Royal Albert Hall. “Gli Who cantavano The Kids are Alright e mi scendevano le lacrime” scrive in Watching the Wheels, la sua autobiografia. “Se cercate un mauale su come non costruirsi una carriera in Formula 1” suggerisce, “la mia storia è un buon punto di partenza”.

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