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F1, in memoria di Fangio: “Chi muore correndo ha vissuto più degli altri”

Il 17 luglio 1995 moriva uno dei più grandi piloti di tutti i tempi. Ha vinto 5 mondiali e 24 gran premi su 52: è la percentuale di successi più alta nella storia della Formula 1. Ha trionfato su Alfa, Maserati e Mercedes. E’ stato anche rapito a Cuba nel 1958. “Correre è vivere” diceva.
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I codardi muoiono tante volte, i coraggiosi una volta sola. E Juan Manuel Fangio, per molti il più grande pilota di tutti i tempi, morto il 17 luglio 1995, appartiene di sicuro alla seconda categoria. Ha vinto 24 GP su 51 in carriera, la percentuale di successi più alta nella storia della F1. Solo Michael Schumacher ha vinto più titoli mondiali ma, come ha dichiarato nel 2003, “lui è di un altro livello. Tra me e Fangio non può esistere nessun paragone”. È un mito larger than life, e il fascino seppiato delle foto d'epoca, delle pellicole consunte, dei cinegiornali, non fa che alimentare la leggenda di un pilota unico, che avrebbe ancora da insegnare ai campioni di oggi. “Devi sempre credere che diventerai il migliore” diceva, “ma non devi mai pensare di esserci riuscito”.

La passione per i motori – Prima che Juan Manuel nascesse il giorno di San Giovanni del 1911, la cittadina di Balcarce, 200 km a sud di Buenos Aires, era famosa solo per le patate. Figlio di un imbianchino immigrato dall'Italia, Loretto, Fangio comincia a giocare a calcio. È una mezzala destra piuttosto promettente nella squadra locale: lo chiamano El Chueco, lo storto, per via delle gambe (secondo un'altra versione, invece, deve il soprannome ai velenosi tiri uncinati di sinistro). A 11 anni si siede per la prima volta in un'auto. “Col piede sull'acceleratore, avrei potuto invocare 40 cavalli” scrive nella sua autobiografia. “Se avessi voluto, avrei potuto guidare e far sì che due tonnellate di metallo obbedissero al mio volere”. A 13 anni anni è assistente meccanico per Miguel Viggiano. Scopre il mondo delle corse dal di dentro, impara tutti i segreti dei motori a scoppio, Il suo compito è portare le auto da Buenos Aires a Balcarce per consegnarle ai clienti. Spesso le strade sono fangose, soprattutto quando piove, così sviluppa l'abilità che lo renderà celebre. Nel 1932 lascia Balcarce per il servizio militare, e al ritorno apre la sua officina insieme al fratello Toto. Nel 1936 partecipa alla sua prima corsa su un taxi modificato; adora gareggiare nelle drammatiche corse di resistenza sulle polverose e pericolose strade dell'epoca. Inizia a farsi un nome nel 1938, quando chiude settimo il massacrante Gran Premio Argentino de Carreteras, dopo 7390 km. La gente di Balcarce si innamora di lui e organizza una colletta per regalargli un'auto migliore, la Chevy coupe sei cilindri con cui ottiene la sua prima vittoria di prestigio, il Gran Premio Internacional del Norte del 1940: 109 ore, spalmate in due settimane, per andare da Buenos Aires a Lima e ritorno. Due volte campione d'Argentina (1940 e 1941) prima della guerra, nel 1948 sfugge per la prima, ma non ultima, volta alla morte. Al Gran Premio de la America del Sur, praticamente un giro del Sudamerica in macchina, ha un grave incidente in cui muore l'amico e copilota Daniel Urrutia.

Campione del mondo – Determinante in quegli anni l'aiuto del presidente Juan Peron, grande amante delle corse, che nel 1948 manda un gruppo di piloti a tenere alto il nome dell'Argentina in Europa e negli Usa. Ma il debutto di Fangio a Indianapolis, su una Simca-Gordini non proprio competitiva, delude. L'anno dopo, l'Argentine Automobile Club acquista per lui una Maserati 4CLT/48 che porta al trionfo a Mar del Plata, a San Remo, Pau, Perpignan e Marsiglia. Vince il secondo mondiale della storia poi, dopo il biennio targato Ascari, è praticamente imbattibile tra il 1954 e il 1957. Celebre il GP di Monza del 1956 quando Collins gli cede l'auto e gli consente così di vincere il terzo Mondiale di fila.

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Se l'auto è buona” spiegava, “il pilota è solo un altro elemento del quadro. Ma quando non è buona, allora vengono fuori i bravi piloti. Come nella vita, le corse favoriscono chi ha carattere”. Anche se, in base al suo motto, il pilota non è l'ingrediente principale del successo. “Il segreto? 50% macchina, 25% pilota, 25% fortuna”. E di fortuna, el Chueco, ne ha avuta parecchia. Di quella fortuna che aiuta gli audaci e i piloti di personalità che non vanno solo veloci, ma sanno anche amministrare, controllare, quando è il momento. Nel 1950, a Monaco, alla curva del Tabaccaio, un’onda si infrange sulle barriere e allaga la pista. Fangio, in testa alla corsa, si accorge di qualcosa di strano: il pubblico non sta guardando in direzione delle macchine che sopraggiungono. Evita così l'acqua, come Villoresi. Farina, terzo, va invece in acquaplaning e come la pallina di un flipper sbatte da una parte all’altra della strada coinvolgendo nell'incidente altre nove macchine. Nel 1952 arriva a Monza dopo aver guidato tutta la notte da Parigi. È stanco, non ha avuto il tempo di provare il circuito: durante un sorpasso finisce fuori pista e si rompe l'osso del collo. “In quei giorni” confessa al biografo Roberto Carrizo, “ho capito quanto sia facile passare dalla vita alla morte senza nemmeno accorgersene. Ma soprattutto ho capito chi sono i miei veri amici”. Evita ancora la morte nel 1955, a Le Mans. È al volante della Mercedes, sta duellando con la Jaguar di Hawthorn, che rallenta per entrare ai box quando il semi-sconosciuto francese Pierre Levegh lo tampona, si schianta verso le tribune e muore insieme a 80 spettatori. Molti lo criticano, ma Fangio lo difende: prima di scontrarsi con Hawthorn, dice, ha alzato la mano e quel segnale di pericolo mi ha salvato la vita.

Quella notte a Cuba – Ha 46 anni, Fangio, nel 1958. Niente sembra funzionare quell'anno, è una di quelle stagioni balorde che cominciano male e sono destinate a finire peggio. Alla vigilia del GP di Cuba, che faceva parte delle manifestazioni sportive programmate dal governo cubano per migliorare l’immagine del dittatore Fulgencio Batista, in grave crisi, viene prelevato da un militante del Movimento 26 Luglio che gli punta la rivoltella alla schiena. “Mi aspettavo che sparasse per tirarmi sul pavimento come nei film d’azione” dirà anni dopo, “ma non successe nulla”. È un sequestro dimostrativo: i rapitori cambiano due volte auto, ma non lo bendano e addirittura si scusano perché in una delle case in cui lo tengono chiuso per la durata del GP la padrona di casa gli serve solo uova e patate fritte. Poche ore dopo il sequestro, la notizia era in prima pagina dappertutto. La gara, ormai in secondo piano, finisce dopo sei giri quando la Ferrari di Armando Garcia Cifuentes esce di pista e uccide sette spettatori. Dopo la gara, i membri del gruppo rivoluzionario contattano l'ambasciata argentina per rilasciare Fangio prima della presumibile reazione degli uomini al soldo di Batista. Al ritorno negli Usa, gli offrono 1000 dollari per partecipare con Jack Dempsey allo show di Ed Sullivan. “Ho vinto cinque titoli mondiali” commenta con ironia, “ma c'è voluto un sequestro a Cuba perché diventassi famoso negli Usa”. Nel 1981 tornerà a Cuba, da presidente di Mercedes-Benz Argentina, per vendere camion al governo. Incontra anche Faustino Pérez, il capo dell'operazione nel 1958, e Fidel Castro che di nuovo gli chiese scusa. Ancora oggi all'hotel Lincoln c'è una targa: “Nella notte del 24 – 02 -1958 in questo luogo venne sequestrato da un commando del Movimento 26 di Luglio, diretto da Oscar Lucero, il cinque volte campione del mondo di automobilismo Juan Manuel Fangio. Fu un duro colpo propagandistico contro la tirannia di Batista e un importante stimolo per le forze della Rivoluzione”. La stagione continua tra mille problemi e Fangio decide di ritirarsi prima della fine, a Reims. Due anni dopo, nel 1960, lascia anche la sua storica compagna, Andreina "Bebe" Espinosa, che l'ha sempre aspettato ai box in tutte le gare.

L'eredità – Sono stato fortunato in tutta la vita” ha detto. “Non sono ricco. Ho abbastanza per godermi la vita e lasciare qualcosa alla mia famiglia. Se fossi davvero ricco mi chiederei: ‘A che mi servono tutti questi soldi?'. Mi diverto di più di chi ha fatto del materialismo la sua massima. L'amicizia è la più grande ricchezza che si possa avere”. È proprio vero: “Correre è vivere” ha sempre sostenuto, “ma quelli che sono morti correndo sapevano come si vive più di tutti gli altri”. E sono morti una volta sola.

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