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Scandalo Volkswagen, l’Europa già “sospettava” da almeno due anni

Mentre l’Unione Europea parlava da anni ed anni, gli Stati Uniti decidevano con poche parole il tracollo della Volkswagen. Queste le accuse del Financial Times.
A cura di Danilo Massa
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"Basta bugie", Pinocchio accompagna il logo della Volkswagen.
"Basta bugie", Pinocchio accompagna il logo della Volkswagen.

Venuto fuori lo scandalo, seguono i "si sapeva". Il primo a sapere, secondo quanto rivelato dal Die Welt, era il Ministero dei Trasporti tedesco che, nell'ambito di un'interrogazione parlamentare dei Verdi, affermava "il Governo sostiene l’ulteriore sviluppo delle normative Ue, in particolare con l’obiettivo di ridurre le emissioni reali dei veicoli a motore". Era il 28 luglio di quest'anno. Questione di nemmeno due mesi, ma, in realtà, il timore è che molti fossero informati dell'imbroglio tedesco già da anni. Ad esprimere questa eventualità è il Financial Times, che cita una relazione del Joint Research Centre (Centro di Ricerca Comune) del 2013. Il JRC non è affatto un centro di ricerca qualsiasi, ma una direzione generale della Commissione europea; emanazione diretta, dunque, delle istituzioni europee. Il Centro segnalava la necessità di spostare i test sulle emissioni dall'officina alla strada, perché si potessero rendere inutilizzabili quei "dispositivi di manipolazione che possono attivare, modulare, ritardare o disattivare i sistemi di controllo delle emissioni”.

Il software che truccava le emissioni si attivava quando lo sterzo era bloccato. In questo modo, l'auto che saliva sul rullo delle officine attivava il software che entrava in "modalità frode". Le emissioni si riducevano per magia anche di 40 volte rispetto alla percorrenza su strada. L'inglese Financial Times va giù duro sulle istituzioni europee, incapaci "di denunciare questi trucchi porta alla luce il potere delle lobby dell’industria automobilistica europea che ha scommesso molto sui diesel. Circa il 53% delle nuove auto vendute nell’Ue sono (oggi) diesel, rispetto al circa 10% dei primi anni ‘90". Il Daily Telegraph cita invece Greenpeace e parla di "lobby del diesel".

Problema noto, insomma, su cui il dibattito era aperto da tempo. Nel 2007 i software di manipolazione delle emissioni vennero resi illegali. Otto anni fa, dunque, si decretava l'illegalità di quello che evidentemente già esisteva e poteva creare qualche grattacapo. Nel 2013 l'Europa cerca – e conosce – una soluzione; a luglio del 2015 la Germania discute. A settembre, mentre l'Ue parla da anni, ci pensano gli Usa a dare un taglio netto di forbici: l'EPA svergogna i tedeschi. I teutonici assicurano giustizia, il Ceo si dimette (con una generosa buonuscita) e Volkswagen cerca di limitare il danno: le euro 6 sono davvero euro 6. Dal canto suo l'UE si leva di dosso possibili accuse di lassismo lamentando un'assenza di sovranità sull'Europa (sovranità che però, montando lo scandalo, hanno dimostrato di avere di più gli Usa). Lucia Caudet, portavoce della Commissione, ha infatti osservato la “Commissione non fa le veci della polizia” ma che “gli Stati membri hanno comunque l’obbligo di rispettare la legislazione della Ue, tra cui il divieto esplicito sui dispositivi della frode”.

Le emissioni Volkswagen non sono poi così "verdi"; i sorci visti in borsa sì. Si cerca di capire quanto sia esteso lo scandalo, per modelli, geografia e brand. La Svizzera ha bloccato la vendita delle auto Volkswagen, mentre Suzuki ha ceduto le proprie quote nel gruppo tedesco a Porsche. In tutto si parla di 11 milioni di auto "truccate", con i diversi paesi europei che, sordi al JRC, diventano improvvisamente sensibili all'EPA ed annunciano inchieste. Riccardo Nencini, viceministro alle Infrastrutture e ai Trasporti, ha fatto sapere che in Italia "c’è una previsione di massima che parla di circa 1 milione di veicoli coinvolti". Ora, volante alla mano, bisogna chiedersi dove è arrivata e soprattutto quanta strada ancora può fare l'etica del "quieto vivere" (tra polveri sottili).

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